Abbiamo visto quante viti piantare ed a quale distanza l’una dall’altra. Vediamo ora come dare sostegno alla vite, analizziamo cioè la forma d’allevamento del vigneto. Questo articolo è il quinto della serie su come progettare un vigneto.
- spalliera (45%): altrimenti detta guyot in onore del viticoltore francese che per primo la formalizzò (in realtà era già in uso da tempi remoti), si tratta della forma di allevamento più utilizzata in quanto maggiormente incline all’utilizzo di mezzi meccanici. In tutte le varianti previste per questa forma d’allevamento (cordone rinnovato semplice, cordone a mezzo archetto ed archetto, cordone rinnovato doppio, cordone speronato), la superficie vegetativa si sviluppa perpendicolarmente al terreno per mezzo di pali ed i tralci vengono sostenuti da una serie di fili (solitamente di ferro) o doppi fili paralleli al terreno e distanziati tra loro di 30-40 cm.
- alberello (35%): molto diffusa al meridione, questa forma non prevede alcun sostegno (pali) ma è difficile da gestire con mezzi meccanici per cui, anche se consente di ottenere uva di buona qualità, è poco utilizzata nei nuovi impianti;
- tendone (12%): anche questa forma di allevamento è poco meccanizzabile oltre che molto diffusa al sud, dove viene utilizzata soprattutto per l’uva da tavola, anche se ben si adatta a quella da vino. Consente di ottenere elevati livelli produttivi ed una buona qualità;
- pergola (3%): diffusa nel nord-est, è una forma d’allevamento in cui la superficie vegetativa si sviluppa in modo orizzontale o obliquo. Utilizzando molti pali, risulta essere onerosa dal punto di vista economico; se si considera inoltre che è molto difficile da trattare con mezzi meccanici, allora si intuisce il motivo della sua bassa diffusione, nonostante la buona areazione dei grappoli riduca l’insorgenza di malattie;
- altre (5%).
Come abbiamo potuto vedere, le opzioni non mancano e scegliere la forrma di allevamento più adatta a me ed al mio vigneto non è stata cosa semplice. Eccezion fatta per la pergola, che come abbiamo visto è poco conosciuta dalle mie parti, ognuna di queste forme mi intrigava per qualche motivo particolare: l’alberello per l’ottima qualità dell’uva prodotta, il tendone per il suo fascino estetico, la spalliera per la sua naturale predisposizione alla meccanizzazione. Dopo un’analisi più approfondita però, sono stato costretto a rinunciare all’alberello perchè la sua gestione avrebbe richiesto una dedizione che il mio poco tempo libero non avrebbe permesso; ho poi notato che vi sono pochi vitigni di piedirosso in zona allevati con questa forma (forse per la sua spiccata vigoria), ulteriore sintomo di inefficacia oltre che di mancanza di competenze e professionisti da cui aver potuto eventualmente attingere informazioni. Di piedirosso allevati a tendone invece se ne vedono tanti, ma anche questa forma non penso si adatti perfettamente alla mia situazione: è poco incline alla meccanizzazione e solitamente si basa su di un sesto d’impianto per vigneti a bassissima densità (2,50×2,50, se non 3×3) molto più ampio di quello deciso per il mio vigneto.
Com’è facile intuire quindi, la scelta finale è ricaduta sulla forma a spalliera che, oltre a facilitare le operazioni (potatura, raccolta, fresatura ecc.) mediante l’uso di mezzi meccanici, si adatta perfettamente al sesto d’impianto 2×1,50 del mio vigneto. Non a caso si tratta della forma di allevamento più diffusa nel vesuviano per l’allevamento del piedirosso, così come non è un caso che anche la famosa azienda Mastroberardino, nel ripristinare i vigneti dell’antica Pompei, abbia optato per questa forma di allevamento (oltre che per i vitigni autoctoni piedirosso e sciascinoso). Questo a dimostrazione che la mia scelta non è stata casuale, ma il frutto di una conoscenza ed un sapere tramandatosi nel corso dei secoli.
Ma come realizzare praticamente l’impianto a spalliera? Innanzitutto bisogna dotarsi di robusti pali, sia di testata (ovvero quelli collocati all’inzio ed alla fine del filare) che intermedi. La scelta può in questo caso ricadere su pali di cemento armato e precompresso, in legno o in acciaio. L’idea di utilizzare l’acciaio o il cemento però non mi piaceva affatto, va contro la mia concezione di vigneto in simbiosi con la natura circostante, per cui ho optato per dei bellissimi pali di castagno provenienti dai vicini boschi di Agerola (più resistenti dei soliti in quanto cresciuti su terreni scoscesi), molto indicati perchè resistenti all’umidità, agli sbalzi di temperatura e all’aggressione dei tarli. Per aumentare ulteriormente la resistenza e quindi la durata di questi pali, è necessario trattare la parte che andrà nel terreno col primer, un composto bituminoso in grado di creare una sorta di barriera impermeabile tra il palo e ciò che lo circonda. Quelli di testata sono più spessi ed alti di quelli intermedi, oltre ad essere più spessi alla base per evitare eccessive sollecitazioni causate soprattutto dal vento; dalla loro stabilità dipende infatti anche quella dell’intero filare. Proprio per questo i pali di testata dovranno essere ancorati al terreno per mezzo di ancoraggi resistenti e profondi (questi si in acciaio), detti appunto ancore ad elica (per la loro estremità a forma d’elica, che ne favorisce l’avvitamento nel terreno). Per sostenere i tralci delle viti, che cresceranno tra un palo e l’altro, è necessario stendere a tre altezze diverse dei fili in acciaio inox o in acciaio con protezione in zinco e alluminio.
Nei giorni scorsi ho acquistato tutto l’occorrente per la realizzazione dell’impianto. Nel dettaglio:
- 140 pali intermedi;
- 14 pali di testata;
- 14 ancore ad elica;
- latta di primer da 20 Kg;
- filo in acciaio zincato diametro 16 da 25 Kg (per sostenere i tralci, prima fila);
- filo in acciaio zincato diametro 13 da 34 Kg (per sostenere i tralci, seconda e terza fila);
- filo in acciaio zincato diametro 18 da 10 Kg (per unire i pali di testata alle ancore);
- distanziatori a molla;
- chiodi ad “U” per fissare i fili ed i distanziatori ai pali.
Spesa totale? 511,50 euro, e non è ancora finita….
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